sabato 8 ottobre 2016

Delle lingue europee

Delle lingue europee **

Il problema linguistico è un problema di grandissima importanza per l'avvenire dell'Europa, al di là di quello delle istituzioni europee, e mi sembra che, al momento, la questione non è stata approfondita, né dibattuta, a livello delle istituzioni responsabili.  C'è una deriva verso l'inglese e se delle decisioni sono state prese, a qualsiasi livello, si tratta di decisioni occulte e di parte, prese in assenza e all'insaputa delle parti interessate. Ora, tenuto conto dell'importanza di questo tema, ogni decisione dovrebbe essere presa con cognizione di causa e con la partecipazione ed il consenso espliciti dei cittadini europei e di tutte le forze in gioco.

Va da sé che i dibattiti tra funzionari, anche se essi rappresentano,  senza alcun dubbio,  una delle tante parti interessate, non possono che apportare degli elementi di riflessione al dibattito generale. In questa ottica, vorrei mettere in evidenza due questioni importanti che si pongono, tra le altre, quando si solleva il problema delle lingue di lavoro delle istituzioni europee: la questione culturale e la questione democratica, per poi tirare le conclusioni quanto a ciò di cui, a mio parere, l’Europa ha bisogno.

La questione culturale

Una lingua è sempre e, innanzitutto, l'espressione di una cultura, forse anche l'espressione più completa di ogni specifica cultura.

Si considera, in genere che, all’interno delle istituzioni europee, esistono «grossomodo» due grandi blocchi, quello che si  identifica con la cultura latina e quello che si identifica con la cultura anglosassone. C'è tuttavia, in questo assioma, una grande lacuna dove si dimenticano molte cose e in particolare la cultura germanica che,  nella sua «forma mentis», si avvicina più alla cultura latina che a quella anglosassone e che è, in ogni caso, una cultura a sé: fertile, radiosa, umanistica, culla della cultura mitteleuropea. Questa cultura, che le vicende delle due guerre mondiali hanno sacrificato e occultato, in ogni senso, rendendola responsabile, attraverso un giudizio sommario, di certe devianze politiche, è sempre viva e feconda, radicata in un vasto tessuto rurale ed urbano di una ricchezza e di una esuberanza straordinarie. Sarebbe un errore storico imperdonabile privare l'Europa della sua dimensione mitteleuropea relegando questa ad un rango secondario. L'adesione di certi paesi dell'Europa centrale, peraltro, non può che dare un nuovo slancio a questa cultura e destinarla ad avere un ruolo sempre più importante. Va da se che l'Europa ha bisogno, anche e soprattutto, della sua dimensione greco-latina che è stata e resta la placenta della civiltà occidentale.

Le istituzioni europee, nella messa in pratica effettiva della democrazia e dello stato di diritto, non possono prescindere dalla razionalità, dalla logica e dal rigore del pensiero greco-latino che non può trovare la sua vera espressione e salvaguardare i suoi valori attraverso uno strumento tanto imperfetto quale può esserlo una lingua appartenente ad un'altra forma di pensiero. Incombe dunque alle istituzioni europee e a tutte le parti in causa di vegliare ad evitare l'impoverimento del pensiero nelle sabbie mobili del pragmatismo della  cultura anglofona. Incombe loro di vegliare, altresì, a non scivolare nel pensiero unico della globalizzazione  attraverso l’uso di una sola lingua che impone la sua cultura.

L'Europa, nella sua dimensione linguistica e culturale, se  vuole darsi una vera opportunità di riempire il suo ruolo e di esistere a livello mondiale, non può costruirsi ad immagine di altri imperi e di altre potenze, in altre regioni del mondo, per le quali la grande carta vincente e il segreto del successo sono il livellamento verso il basso e l'assenza di un impegno etico culturale che si riconosca nei valori umanistici, nel rispetto di tutte le culture, nella solidarietà sociale. L'Europa deve tenere conto della «sua» realtà e dare lo spazio appropriato e necessario alle molteplici culture che ne costituiscono la ricchezza e l’«unicità». Tenere conto di questa ricchezza e di questa «unicità» significa che l'Europa non può funzionare sulla   base  di  una sola lingua, nella fattispecie l'inglese,  se non vuole innescare il meccanismo di un appiattimento suicida ed inaccettabile.

Ma  l'Europa, per fare questo, non può restare inerte, deve riflettere, decidere, pianificare, agire.

La questione democratica

Le istituzioni europee perseguono degli obiettivi che tendono all’integrazione nei campi più vasti e diversificati, spesso altamente tecnici, e producono delle regolamentazioni che hanno un impatto sulla vita dei cittadini. Talvolta, queste regolamentazioni sono direttamente applicabili all’interno del sistema legislativo e regolamentare nazionale. Tenuto conto di queste caratteristiche uniche a livello delle organizzazioni internazionali esistenti, i Padri fondatori, allo scopo di porre tutti i cittadini su un piano di uguaglianza, di fronte alle istituzioni, ai regolamenti che emanano, alle opportunità che creano, avevano deciso che tutte le lingue della Comunità Europea avessero il rango di lingue ufficiali e di lingue di lavoro. Per molti anni, pur con una predominanza del francese che si poteva giustificare con il fatto che il francese è la lingua veicolare di Bruxelles, capitale dell’Europa e sede delle sue istituzioni, tutte le lingue degli Stati Membri erano di uso corrente, in seno a tutte le istituzioni europee e in tutte le forme d’espressione: dai documenti di lavoro all’interpretazione per le riunioni, dai formulari per qualsiasi procedura amministrativa alle indicazioni ad uso dei visitatori, dal bollettino di informazione dei funzionari alle comunicazioni personali per i cittadini europei che chiedevano informazioni su l’uno o l’altro tema. Le unità, che costituiscono la base del sistema gerarchico-amministrativo, erano scrupolosamente multilingui e predisposte in modo tale da poter far fronte, dal punto di vista linguistico, a tutte le eventualità.  Poco a poco, con il progressivo rimpiazzarsi del sistema inglese al sistema preesistente di stampo latino, questo schema trasparente e ordinato è stato sovvertito a un punto tale che oggi quando se ne parla sembra una cosa strana, un’originalità.

Recentemente, sotto la presidenza di Romano Prodi,  per dichiarate necessità interne di carattere pratico, la Commissione Europea, ha deciso di ridurre a tre le lingue di procedura: tedesco, francese, inglese, senza tuttavia toccare allo statuto di  «lingua ufficiale e lingua di lavoro» delle altre lingue, per il semplice fatto che non rientra nelle sue competenze e che solo il Consiglio di Ministri del‘Unione può farlo deliberando all’unanimità. Ciononostante,  queste tre lingue sono oggi considerate “de facto” le lingue di lavoro della Commissione.  Da notare che la proposta iniziale era stata quella di ridurre le lingue di procedura al solo inglese e che soltanto in seguito alle vive proteste dei Ministri degli Affari Esteri Francese e Tedesco la Commissione Prodi ha ripiegato sulle tre lingue. In questa circostanza, non si capisce perché mai il Governo Italiano non si sia manifestato essendo l’Italia uno dei quattro grandi Stati Membri dell’Unione e Membro Fondatore della Comunità Europea.

Questa limitazione dell'uso delle lingue, all’interno dei servizi costituisce, in ogni caso, una distorsione, in termini di democrazia e di diritti umani perché ha come conseguenza di mettere in pratica una discriminazione di fatto nei confronti di certi Paesi e di certi cittadini, ponendone d’ufficio altri in posizione privilegiata. Questo fatto è tanto più grave e inaccettabile in  quanto i criteri di scelta delle lingue non sono né chiari, né obiettivi, né univoci, né giustificati e tantomeno stabiliti in un’ottica di democrazia e d’interesse generale.

In questa situazione,  poco esaltante,  restava, tuttavia, salva la nozione di cultura, ed in ogni caso il diritto degli Stati Membri e dei loro cittadini di comunicare con la Commissione e con le altre istituzioni europee nella loro lingua nazionale.  All'interno delle istituzioni, i funzionari meno privilegiati potevano riconoscersi nell’una o nell'altra cultura,  trovarvi i loro punti di riferimento ed adattarsi ad una forma di espressione dove, indipendentemente dalla lingua e dalle parole utilizzate, la «forma mentis» e il contesto culturale nei quali si riconoscevano restavano validi. Una lingua, in effetti, non è unicamente costituita dalle parole con le quali si esprime ma anche dal contesto da cui trae le sue origini, dai valori e dalle forme di pensiero, dal cammino che ha percorso, in sintesi dalla sua storia e dai valori che gliene sono restati.

Al momento attuale, però, tutto ciò diventa difficile, la cultura anglo-americana ed i suoi cittadini, le loro “lobbies”, le loro strutture si comportano in guisa di etnie superiori e considerano di avere il privilegio, unico, di parlare quella che è di diritto «la» lingua planetaria. C'è, in questo atteggiamento, un equivoco fondamentale perché, in effetti, in seno alle istituzioni europee e in tutto ciò che a queste si riferisce,  non si opera a livello mondiale ma a livello europeo.  A un livello in cui un certo numero di paesi dell'Europa lavorano insieme allo scopo di integrarsi progressivamente fino a formare un solo corpo, una unica potenza.  In questo contesto, le lingue di livello mondiale non hanno un loro posto, nessun "diritto di cittadinanza” particolare.  Al livello europeo occorre privilegiare le lingue che illustrano la specificità dell’Europa, occorre imporle ai nostri interlocutori ed ai nostri “partenaires” per indurli a giocare nel nostro campo e mettere fine alla costrizione che è imposta ai nostri uomini politici, ai governanti e ai dirigenti dell’Europa  intera di giocare tutti gli incontri fuori casa.

La salvaguardia di questa specificità è un qualcosa che è dovuto ai cittadini europei, per evitare il pericolo di porre nella culla dell'Europa riunificata il germe del conflitto e della discordia. Non bisogna mai dimenticare che le popolazioni sono capaci di massacrarsi a vicenda, senza tregua  per difendere la loro cultura,  una cultura che può trovare espressione nella religione, nella lingua, in una diversa concezione del vivere insieme.  Gli esempi tragici di conflitti insolubili, sotto i nostri occhi,  sono molteplici e multiformi e non hanno bisogno di essere ricordati.

Nonostante ciò, la lingua e la cultura anglo-americana dispongono  di sostenitori e di promotori potenti che non si fanno alcuno scrupolo di disporre dell’uno o dell'altro strumento di lavoro e di comunicazione o addirittura della pubblica istruzione per fare della pulizia etnico linguistica o per favorire la colonizzazione del proprio Paese.

Gli anglofoni, in genere, conoscono una sola lingua che impongono agli altri, i quali “altri” devono dibattersi, non solo a captare un pensiero che non corrisponde alla loro “forma mentis” ma a tradurre, per di più,  il loro stesso pensiero attraverso una lingua che non ne è lo strumento adeguato. Nella mia qualità di funzionario europeo, mi è capitato spesso che, durante una riunione, l'anglofono di turno dichiarasse non solo di non parlare il francese, lo spagnolo ecc. ma      di non essere neanche in grado di comprenderlo. In questi casi, non resta nient’ altro da fare che mettersi al regime inglese anche allorché l'anglofono di turno è, eventualmente, il solo esemplare di questa razza privilegiata e che gli altri sono tutti dei latini che potrebbero, molto più vantaggiosamente, per tutti, esprimersi in francese, in italiano, in spagnolo, o magari parlare ognuno la propria lingua comprendendosi reciprocamente. In queste occasioni, generalmente, l’atteggiamento anglofono, ancor di più se si tratta di un anglofono non di lingua madre, è così arrogante e la sensazione di coercizione è tale che rasenta l'intimidazione e nessuno osa dire  che non vuole o che non può parlare in inglese.

Un semplice riflesso di giustizia e di equità suggerisce che è giunto il momento di mettere fine a queste pratiche poco democratiche in seno alle istituzioni europee che si vantano di essere le più democratiche del mondo. Non se ne può più del fatto che certuni debbano sempre fare il ruolo degli schiavetti negri che non sono in grado di esprimersi bene, perché sistematicamente costretti ad esprimersi in una lingua che non è la loro, allorché altri pretendono di esprimersi, leggere, scrivere, formarsi ed informarsi sempre e solamente, nella loro propria lingua. È ancora più inaccettabile che i cittadini degli Stati membri quando si rivolgono, alla Commissione ed alle altre istituzioni europee, se vogliono essere presi in considerazione, per avere delle notizie, nei settori più tecnici e diversificati, debbano scrivere in inglese e/o accontentarsi di una risposta in inglese.

L’attuale situazione, per quanto occultata e strisciante, non ha niente da invidiare a quella che ha visto nascere l’ideologia nazista. E’ importante e necessario prendere coscienza del fatto che siamo in presenza di una nuova forma di colonizzazione, la colonizzazione linguistica e culturale, attraverso la quale gli anglo-americani pianificano, la scomparsa di tutte le altre culture, delle culture più antiche e fiorenti,   ovvero la culla della civiltà occidentale. Coloro che sono responsabili di questa deriva, per interesse o per negligenza, devono essere coscienti della responsabilità che si assumono e del fatto che l’unilinguismo porta nel suo seno il cancro del “pensiero unico”, vale a dire, del pensiero morto.

Una politica linguistica per l’Europa.

Nell'immediato, un metodo per ovviare, almeno in parte, a questo grave problema e ristabilire un minimo di democrazia, in seno alle istituzioni europee, sarebbe di mettere in atto, a scopo di esemplarità, un certo numero di provvedimenti:

1) rispettare anzitutto le lingue dei Paesi in cui siedono le istituzioni europee e le loro emanazioni, al fine di integrarvisi armoniosamente e non come l'enclave di una élite colonizzatrice,

2) esigere che tutti i nuovi funzionari possano, se non parlare, almeno comprendere le tre lingue attualmente adottate come lingue di procedura, affinché ogni funzionario possa avere, in pratica e concretamente,  la scelta della lingua di lavoro, allo scopo di fornire all’Europa in marcia delle prestazioni di qualità e non delle riflessioni confuse e rattoppate perché obbligato ad esprimersi in una lingua che non corrisponde alla sua cultura,

3) migliorare, ingrandire, valorizzare i servizi linguistici ( traduzione e interpretariato), in seno alle istituzioni europee, farne dei centri di eccellenza al servizio del cittadino europeo nella misura in cui, nel processo di integrazione nel quale siamo impegnati, costituiscono servizi di interesse pubblico di prima necessità,

4) adottare un codice di buona condotta nell'uso delle lingue ufficiali, in seno alle istituzioni europee, in assenza del quale c'è il rischio di abusi, di illegalità e di sconfinamenti nell'arbitrarietà.

Nessuno, in ogni caso, in seno alle istituzioni e all’interno degli Stati Membri,  dovrebbe mai essere obbligato a formarsi, ad informarsi, ad esprimersi, per iscritto o oralmente, in una lingua che non appartiene alla cultura nella quale si è formato e nella quale si riconosce. In mancanza di ciò e delle regolamentazioni appropriate per renderlo effettivo, il processo di integrazione europea sarebbe portatore di un deficit democratico grave, generatore potenziale di conflitti insolubili.

A breve termine, il sistema linguistico deve essere rivisto,  allargando il numero delle lingue di lavoro, in un'ottica di cultura e di democrazia. È, tra l’altro, sorprendente ed inconcepibile che l'italiano, lingua di un grande Paese fondatore che ha impregnato della sua cultura l'Europa ed il mondo, sia dimenticato e trattato come una lingua “minore”. Per preservare la sua civiltà, i suoi valori, le sue creazioni,  il suo splendore,  l'italiano deve avere il suo posto, nel lavoro quotidiano che si svolge nel cuore dell’Europa, la concepisce e la forgia. Argomenti simili o equivalenti possono essere avanzati per lo spagnolo.

Il sistema linguistico attuale non è equo né giusto. L’Europa comunitaria ha necessità urgente di una politica linguistica degna di questo nome. In questo ambito, bisognerà porsi il problema della precisione e dell’efficacia delle differenti lingue per i diversi bisogni e per tradurre certi concetti nonché del loro ruolo nella strutturazione del pensiero.

Occorrerà, infine,  porsi anche il problema di “formare i giovani europei”: quali lingue,  come e perché  ma, soprattutto, quando.  Va da sé, che questo genere di soluzioni non trovano la strada da sole, richiedono un impegno congiunto di tutte le parti interessate. Uno impegno per dare una testimonianza concreta di apertura e di democrazia, l’impegno necessario per passare dall'unilateralità alla reciprocità e per dare corpo ad una vera Comunità di culture e di valori, la sola  possibile e duratura perché  democratica e giusta, quella dell'«unità nella diversità».

Anna Maria Campogrande

** Cet article a été écrit à titre personnel, les opinions qu’y sont exprimées n’engagent que l’auteur elle-même   Titre de l’article :     DELLE LINGUE EUROPEE

Anna-Maria Campogrande est fonctionnaire de la Commission européenne et membre fondateur de l’Observatoire International de la langue française (OILF) dont elle préside la commission “Relations avec les institutions”. L’OILF, qui siège à Bruxelles, préconise une Europe pluriculturelle et multilingue, respectueuse des réalités historiques et démographiques de la latinité.

Anna-Maria Campogrande souhaite que soit mis un terme au démantèlement des services linguistiques des institutions européennes ainsi qu’à leur externalisation. Elle suggère qu’ils deviennent des centres d’excellence linguistique au service du citoyen et de l’Europe toute entière. Ce nouvel espace, culturel et économique, qui est l’Union Européenne,  ne connaîtra d’épanouissement qu’à la condition de donner corps à une authentique communauté de valeurs, soucieuse des particularités de tous ses membres.
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‘English to transform the students’ whole world’. A clarification of the 1961 Anglo-American conference report

Robert Phillipson
Copenhagen Business School, Denmark (www.cbs.dk/staff/phillipson)

In my book Linguistic imperialism, published by Oxford University Press in 1992, I analyse how English has become so powerful throughout the world. The book reports on a substantial number of British and US policy documents on the promotion of English as a key instrument of foreign policy.

US policies for establishing global dominance have been explicit since the 1940s. Massive funding came from the US government and from the private sector. For instance, in the mid-1960s the Ford Foundation was funding projects to strengthen English in 38 countries. A recent book on the ‘cultural Cold War’ describes the activities of the CIA in Europe in attempting to influence academics, journalists and the cultural world.

The British Council was the key instrument for cultural diplomacy and the teaching of English worldwide. Since the 1950s there has been a British strategy for making English a ‘world language’, the key second language wherever it is not already the first.

There was an obvious need for the British and Americans to coordinate their involvement in building up English teaching worldwide. The university infrastructure for ‘English as a Second Language’ and the new specialisation ‘Applied Linguistics’ needed to be built up, virtually from scratch. The governments needed to reduce the element of competition between the two countries which, as George Bernard Shaw put it, are ‘divided by a common language’. The US and UK were pursuing broadly similar goals. They needed to exchange information on teacher training, curriculum development and teaching materials, and policy in school and university education.

British activities were discussed at a conference in Oxford in 1955, to which the US government was invited to send delegates. A conference in Washington DC was held in 1959, and attended by five British participants. See the detailed report published by the Center for Applied Linguistics, Proceedings of the Conference on Teaching English Abroad. May 1959.

The next conference was held in Cambridge in 1961, again with US participation. Unlike the 1959 conference, no report was produced for public consumption. A confidential internal report was written for the British Council, which I was given permission to quote from in my book. The purpose of the report was to demonstrate that the field of English teaching worldwide was acquiring academic respectability on both sides of the Atlantic, and deserved increased government funding. It was not intended for wide circulation. It is therefore rather more frank and explicit about political goals than language specialists would be when discussing professional issues. Key participants are therefore quoted for the following:

The teaching of English to non-native speakers may permanently transform the students’ whole world.

If and when a new language becomes really operant in an undeveloped country, the students’ world becomes restructured.

A Ministry of Education – under nationalistic pressures – may not be a good judge of a country’s interests…. A nationalistic spirit could wreck all hopes for English as a second language.

English has become not only the representative of contemporary English-speaking thought and feeling but a vehicle of the entire developing human tradition: the best (and worst) that has been thought and felt by man in all recorded times.

This is a rationale for English linguistic imperialism, for all people, at all times. It claims that English is the only language needed in the modern world. It states that newly independent countries may, for ‘nationalistic’ reasons, be misguided enough to resist English, and that in such cases, their wishes should be over-ruled. This was in the political and commercial interest of the English-speaking countries.

This policy represents a plan for extending worldwide the monolingual policies that were implemented in the United Kingdom and the USA in the nineteenth and twentieth centuries (policies that succeeded in restricting but not eliminating linguistic diversity). The position has been broadly similar in France since the Revolution. French efforts to promote French as a world language, in competition with the British and Americans, are presented in Daniel Coste, Aspects d’une politique de diffusion du français langue étrangère depuis 1945, matériaux pour une histoire (Hatier, 1984).
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martedì 26 luglio 2016

Il Plurilinguismo del Commissario Leonard Orban


Durante la scorsa primavera, c’è stato un gran da fare per il Commissario Europeo al Multilinguismo Leonard Orban e lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf coordinatore del Rapporto che porta il suo nome. I giornali hanno reso conto di riunioni in vari Paesi d’Europa per presentare il Rapporto Maalouf nelle Università e nei templi della cultura europea. In Italia ci sono stati vari incontri tra i quali quello all’Università di Perugia e quello all’Accademia della Crusca. Tutti sembrano inneggiare al « Multilinguismo » del Rapporto Maalouf e all’abilità del Commissario Orban che ha fatto il primo passo verso un’Europa Multilingue. In effetti, né il Commissario Orban, né Lo scrittore Amin Maalouf hanno mosso paglia in favore del multilinguismo europeo perché l’Europa Multilingue è un « fatto » che nemmeno un miracolo potrebbe cambiare.


La Comunità Europea è, attualmente, costituita da ventisette Paesi con ventitré lingue ed è perciò definita « Multilingue ». Altra cosa è il « Plurilinguismo » praticato dalle istituzioni e dai cittadini europei, che consiste nella capacità degli stessi  a comprendere, scrivere, esprimersi e lavorare, in più lingue. Il fatto che l’Europa comunitaria sia « Multilingue » non è un vantaggio in sé è un dato di fatto, tutt’altra cosa è che essa pratichi queste lingue e che sia dunque « Plurilingue ». C’è da chiedersi se la sottigliezza sfugga alla Commissione Europea o se si giochi volontariamente sull’equivoco.

In effetti,  il Rapporto Maalouf non è,  perniente, il primo passo sulla buona strada, è il primo passo su una pessima strada, quella che crea confusione tra ciò che costituisce materia comunitaria e che perciò è di competenza della Commissione Europea, vale a dire le lingue ufficiali degli Stati Membri, che sono poi le stesse che la regolamentazione in vigore attribuisce alla Comunità Europea, e ciò che non costituisce materia comunitaria, vale a dire la cultura e tutte le altre lingue, le quali restano di competenza esclusiva degli Stati Membri in quanto tali e per le quali la  di.

Ciò significa che la Commissione Europea e le altre istituzioni, mentre hanno il diritto e il dovere di mettere in atto politiche comunitarie allo scopo di salvaguardare e di rendere effettivo lo statuto che i Trattati e la regolamentazione comunitaria accordano alle lingue ufficiali degli Stati Membri, non hanno alcun diritto di regolamentare la cultura e lo status di altre lingue, quali esse siano. La posizione presa da Orban di creare il Gruppo di esperti, che ha prodotto il Rapporto Maalouf, e di andare in giro per l’Europa a promuoverlo è una posizione pasticciona che non tiene conto delle prerogative della Commissione e del dispositivo dei Trattati europei. In altri termini, Orban non riempie i suoi compiti e non fa il mestiere per il quale viene pagato dai cittadini europei poiché, invece di predisporre politiche comunitarie per la salvaguardia delle lingue ufficiali degli Stati Membri dell’Unione, si occupa della Cultura che non è di sua competenza, che non è nenche materia comunitaria e va in giro per l’Europa spedendo abusivamente le risorse del budget della Comunità. Questo significa che Leonard Orban, che ha da poco integrato la Commissione Europea, è stato molto mal consigliato dai membri del suo Gabinetto e dai Servizi che sono alle sue dipendenze.

Il Commissario Orban e gli altri Membri della Commissione, che, è opportuno ricordarlo, è un Collegio, devono essere coscienti del fatto che è necessario e urgente superare il dilettantismo del quale fanno prova, sulla questione linguistica europea, e che le interferenze del British Council nelle politiche comunitarie relative alle lingue ufficiali della Comunità Europea, diventano sempre di più intollerabili. In questo modo non stanno facendo l’Europa ma stanno sfasciandola, definitivamente, approfittando del fatto che i cittadini europei, per il momento, sul piano dell’informazione e anche fisicamente, sono ancora relativamente distanti da queste problematiche che, in sede europea, vengono affrontate con estrema leggerezza.

Leonard Orban non ha la minima idea di che cosa sia il plurilinguismo europeo dei Trattati e del Regolamento 1/58, si arrampica sugli specchi e s’immagina di essere a capo di una ONG che può definire autonomamente il suo campo d’azione, non un Membro della Commissione Europea.  Il British Council lo ha preso in mano appena arrivato e lo possiede totalmente, con il ben noto « pragmatismo » anglosassone costituisce la sua anima nera e gli fa mettere in opera le proprie strategie che si abarbicano sulle posizioni privilegiate che le politiche coloniali del XIX Secolo hanno conferito all’inglese e che non hanno ness
una attinenza con la situazione attuale e con l’identità dell’Europa in fieri.

Anna Maria Campogrande

Documento pubblicato nell'ambito dell'Associazione Athena, il 3 Dicembre 2008.

Foto: mediafax.ro
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venerdì 22 luglio 2016

Ecco perché l'Europa è muta



Se si arriverà che il francese non sarà più quello che è, cioè la prima lingua di lavoro d’Europa, allora l’Europa non sarà mai del tutto europea. Poiché l’inglese è innanzitutto la lingua dell’America.

George Pompidou, dichiarazione rilasciata al Soire di Bruxelles, 10 marzo 1971
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sabato 16 luglio 2016

L’EUROPE SERA MULTILINGUE OU NE SERA PAS

A P P E L "L’EUROPE SERA MULTILINGUE OU NE SERA PAS"
du 26 septembre 2003
Journée européenne des langues

Les institutions de l’Union européenne, en donnant la préférence à l’anglais pour en faire pratiquement la langue unique de l’Europe, violent les traités européens.

Le choix de l’anglais comme langue dominatrice procure des avantages massifs, d’ordre économique et politique, aux citoyens de l’UE dont il est la langue maternelle.

Les citoyens de l’UE qui ont d’autres langues maternelles que l’anglais deviennent des étrangers dans l’Union et prennent de moins en moins part à la démocratie de l’Union.

Les langues européennes autres que la langue dominatrice perdent de plus en plus de leur importance culturelle ; l’identité culturelle des pays où elles sont pratiquées est dangereusement lésée.

L’Union européenne perdra son droit à l’existence si elle n’arrête pas l’évolution actuelle vers 1’unilinguisme, et si elle ne revient pas à la pluralité linguistique.

C’est pourquoi, nous appelons les citoyens européens à mettre en œuvre toute leur influence politique afin de lutter contre l’évolution de l’Europe vers l’unilinguisme.
 
L’Union européenne est née en tant qu’association libre de pays européens dans une entité supranationale, assurant le pluralisme et l’égalité des droits de tous les peuples participants.

Pour la première fois dans l’Histoire, les pays européens ont décidé d’unir leurs destinées dans un projet d’intégration mettant fin à toute division, à tout conflit, à toute velléité de domination.

Un projet européen de cette taille ne saurait se concevoir sans le respect absolu de l’identité des pays qu’il rassemble, de leur culture et du multilinguisme qui en est l’expression tangible et l’essence même, la condition nécessaire à sa réussite.

L’article 217 du traité instituant la Communauté économique européenne, signé à Rome le 25 mars 1957, stipule : « Le régime linguistique des institutions de la Communauté est fixé, sans préjudice des dispositions prévues par le statut de la Cour de justice, par le Conseil statuant à l’unanimité. » Cet article n’a jamais été changé, malgré toutes les modifications que le traité a subies par la suite. N’a pas changé non plus le règlement d’application (1) où on lit : « Les langues officielles et les langues de travail sont la langue française, la langue italienne, la langue néerlandaise et la langue allemande. » À ces quatre premières se sont ajoutées, au fur et à mesure des adhésions, les langues des nouveaux pays membres. Ce fait souligne l’importance accordée à la langue de chaque pays dans le contexte de l’intégration des peuples européens.

Dans la réalité, cependant, ces dispositions ne sont pas appliquées, ce qui rend difficile la participation effective du citoyen européen, qui finit par regarder les institutions européennes comme des entités lointaines et artificielles. L’absence, dans la pratique, d’un véritable multilinguisme, accroît de façon exponentielle la distance entre les citoyens et les institutions et leur gestion de la « res publica europea».

En cachette et tout en continuant à affirmer le contraire(2), des institutions européennes, et notamment la Commission, ont mis en œuvre des mesures et des pratiques de plus en plus ramifiées affectant le multilinguisme et favorisant une seule langue. Les raisons invoquées pour cette mise à l’écart « pragmatique » des autres langues sont toutes d’ordre financier, et cela bien que la Commission européenne ait affirmé dans nombre de documents officiels que de tels motifs n’entrent pas en ligne de compte pour le règlement de difficultés d’ordre politique. Et les langues sont justement un obstacle politique, peut‑être même l’un des plus notables.

Parallèlement, les programmes d’enseignement des différents États membres sont de plus en plus axés, et pas seulement dans le domaine linguistique, sur la langue anglaise, à tel point que pour un élève ou un étudiant il devient difficile, voire impossible, de choisir les langues qui se présentaient traditionnellement comme faisant partie de la culture européenne, comme le français, l’allemand, l’italien, l’espagnol. Et tout cela en contradiction ouverte avec les conclusions du Sommet de Barcelone où, pour favoriser une intégration harmonieuse entre les peuples, on a invité les États membres à faire apprendre aux jeunes au moins deux langues étrangères.

La langue est un instrument de pouvoir, peut‑être le moins évident, mais sûrement le plus efficace. On est donc confronté à une tentative de colonisation de l’Europe à laquelle collaborent, de bonne ou de mauvaise foi, les responsables des politiques communautaires, et pas seulement dans le secteur linguistique. Conséquence immédiate de cette stratégie de domination et de son acceptation irresponsable de la part des autorités des autres pays, peu à peu les citoyens de langue maternelle anglaise vont occuper non seulement tous les postes clés mais tout simplement et prioritairement tous les postes en laissant aux autres ce qui reste. Cette évolution est déjà en cours dans les institutions de l’Union et dans beaucoup d’entreprises européennes.
 
La classe politique européenne ne saurait s’acquitter de ses responsabilités dans le domaine linguistique par de simples contributions en faveur de langues locales et/ou minoritaires. Aujourd’hui sont menacées et doivent être developpées des langues telles que le français, l’espagnol, l’italien, l’allemand et toutes les autres langues officielles, qui constituent le fleuron de la culture et du patrimoine européens et servent de support à bien d’autres langues à travers le monde.

Dans cette lutte, personne ne se sauvera seul. Ceux qui se plient à la domination de l’anglais et espèrent la tempérer par la survie d’une ou de deux autres langues sont des perdants, dès le départ. D’abord, parce qu’il faut assurer la participation effective du citoyen à la « res publica europea » et, ensuite, parce que ce qui est aujourd’hui remis en question c’est une façon de vivre, une forme de pensée, une vision du monde qui ne peuvent se résumer ni en une ni en deux ni en trois langues seulement.

Il est nécessaire et urgent de mettre en œuvre un système européen souple et flexible, qui assure le lien entre l’Europe et ses citoyens et les conduise à participer activement à sa construction, dans une optique de culture et de démocratie.

La colonisation actuellement en cours sape les valeurs d’égalité et d’égale dignité qui sont garanties aux citoyens européens par les textes, mais systématiquement remises en question par la Commission et d’autres institutions.

Nous sommes convaincus que, sans une égalité effective entre les citoyens européens, toute obligation morale d'appuyer et de renforcer l'Union tombera, pour laisser la place à l'obligation opposée de la détruire afin de sauvegarder sa propre identité, ce qui serait une vraie tragédie.

Ou bien l'Europe respectera et gardera la diversité de ses cultures et de ses langues, cette diversité qui en constitue l'identité et la spécificité, ou bien elle périra dans une série de conflits, dont on perçoit déjà les premiers signes.



Nous lançons donc un appel à tous les Européens épris de liberté et soucieux de préserver leur identité et les valeurs portées par leur langue pour qu’ils exigent du Parlement européen, du Conseil de l’Union, de la Commission européenne :

1. La primauté, pour la question linguistique en Europe, de sa dimension politique, sur tout autre aspect technique ou financier.

2. Le respect de la diversité linguistique et culturelle de l’Europe, sans laquelle celle-ci perdrait elle-même son identité.

3. Un régime linguistique des institutions européennes explicite, choisi selon des règles démocratiques et transparentes, soumis à un véritable débat public.

4. L’adoption d’une politique linguistique fondée sur le principe d’égalité des citoyens et, par conséquent, d’égalité de leurs langues et cultures respectives.

 (1)   Règlement n.1 établissant le régime linguistique de la Communauté économique européenne, article 1er ‑ Journal officiel n.B 017 du 06/10/1958, p 385.

(2) Déclaration inscrite au procès‑verbal du Conseil, 25 juin 2002 : « Rappelant les conclusions du Conseil européen de Barcelone en ce qui concerne l’enseignement des langues étrangères, le Conseil et la Commission encouragent l’ensemble des institutions à promouvoir la diversité culturelle et les connaissances linguistiques à tous les stades de la carrière des fonctionnaires et autres agents des Communautés européennes. » 


Comité de coordination pour la démocratie linguistique en Europe

Allarme lingua
Avenir de la Langue Française
Campagne Européenne pour les langues
Défense de la Langue Française
Droit de comprendre
Linguarum democratia
Observatoire International de la Langue Française
Verein Deutsche Sprache
Association des professionnels de la traduction des brevets d'invent
Association pour la promotion de la francophonie en Flandre
Cercle littéraire des écrivains cheminots
 e-historia.net
 La ligue de coopération culturelle et scientifique Roumanie-France
             ………
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martedì 12 luglio 2016

Delle lingue europee


Il problema linguistico è un problema di grandissima importanza per l'avvenire dell'Europa, al di là di quello delle istituzioni europee, e mi sembra che, al momento, la questione non è stata approfondita, né dibattuta, a livello delle istituzioni responsabili.  C'è una deriva verso l'inglese e se delle decisioni sono state prese, a qualsiasi livello, si tratta di decisioni occulte e di parte, prese in assenza e all'insaputa delle parti interessate. Ora, tenuto conto dell'importanza di questo tema, ogni decisione dovrebbe essere presa con cognizione di causa e con la partecipazione ed il consenso espliciti dei cittadini europei e di tutte le forze in gioco.                                      

Va da sé che i dibattiti tra funzionari, anche se essi rappresentano,  senza alcun dubbio,  una delle tante parti interessate, non possono che apportare degli elementi di riflessione al dibattito generale. In questa ottica, vorrei mettere in evidenza due questioni importanti che si pongono, tra le altre, quando si solleva il problema delle lingue di lavoro delle istituzioni europee: la questione culturale e la questione democratica, per poi tirare le conclusioni quanto a ciò di cui, a mio parere, l’Europa ha bisogno.

La questione culturale 

Una lingua è sempre e, innanzitutto, l'espressione di una cultura, forse anche l'espressione più completa di ogni specifica cultura. 

Si considera, in genere, che, all’interno delle istituzioni europee, esistono «grosso modo» due grandi blocchi, quello che si  identifica con la cultura latina e quello che si identifica con la cultura anglosassone. C'è tuttavia, in questo assioma, una grande lacuna dove si dimenticano molte cose e in particolare la cultura germanica che,  nella sua «forma mentis», si avvicina più alla cultura latina che a quella anglosassone e che è, in ogni caso, una cultura a sé: fertile, radiosa, umanistica, culla della cultura mitteleuropea. Questa cultura, che le vicende delle due guerre mondiali hanno sacrificato e occultato, in ogni senso, rendendola responsabile, attraverso un giudizio sommario, di certe devianze politiche, è sempre viva e feconda, radicata in un vasto tessuto rurale ed urbano di una ricchezza e di una esuberanza straordinarie. Sarebbe un errore storico imperdonabile privare l'Europa della sua dimensione mitteleuropea relegando questa ad un rango secondario. L'adesione di certi paesi dell'Europa centrale, peraltro, non può che dare un nuovo slancio a questa cultura e destinarla ad avere un ruolo sempre più importante. Va da se che l'Europa ha bisogno, anche e soprattutto, della sua dimensione greco-latina che è stata e resta la placenta della civiltà occidentale.

Le istituzioni europee, nella messa in pratica effettiva della democrazia e dello stato di diritto, non possono prescindere dalla razionalità, dalla logica e dal rigore del pensiero greco-latino che non può trovare la sua vera espressione e salvaguardare i suoi valori attraverso uno strumento tanto imperfetto quale può esserlo una lingua appartenente ad un'altra forma di pensiero. Incombe dunque alle istituzioni europee e a tutte le parti in causa di vegliare ad evitare l'impoverimento del pensiero nelle sabbie mobili del pragmatismo della  cultura anglofona. Incombe loro di vegliare, altresì, a non scivolare nel pensiero unico della globalizzazione  attraverso l’uso di una sola lingua che impone la sua cultura.

L'Europa, nella sua dimensione linguistica e culturale, se  vuole darsi una vera opportunità di riempire il suo ruolo e di esistere a livello mondiale, non può costruirsi ad immagine di altri imperi e di altre potenze, in altre regioni del mondo, per le quali la grande carta vincente e il segreto del successo sono il livellamento verso il basso e l'assenza di un impegno etico culturale che si riconosca nei valori umanistici, nel rispetto di tutte le culture, nella solidarietà sociale. L'Europa deve tenere conto della «sua» realtà e dare lo spazio appropriato e necessario alle molteplici culture che ne costituiscono la ricchezza e l’«unicità». Tenere conto di questa ricchezza e di questa «unicità» significa che l'Europa non può funzionare sulla   base  di  una sola lingua, nella fattispecie l'inglese,  se non vuole innescare il meccanismo di un appiattimento suicida ed inaccettabile.

Ma  l'Europa, per fare questo, non può restare inerte, deve riflettere, decidere, pianificare, agire.


La questione democratica 

Le istituzioni europee perseguono degli obiettivi che tendono all’integrazione nei campi più vasti e diversificati, spesso altamente tecnici, e producono delle regolamentazioni che hanno un impatto sulla vita dei cittadini. Talvolta, anzi sovente, queste regolamentazioni sono direttamente applicabili all’interno del sistema legislativo e regolamentare nazionale. Tenuto conto di queste caratteristiche uniche a livello delle organizzazioni internazionali esistenti, i Padri fondatori, allo scopo di porre tutti i cittadini su un piano di uguaglianza, di fronte alle istituzioni, ai Regolamenti che emanano, alle opportunità che creano, avevano deciso che tutte le lingue della Comunità Europea avessero il rango di lingue ufficiali e di lingue di lavoro. Per molti anni, pur con una predominanza del francese che si poteva giustificare con il fatto che il francese è la lingua veicolare di Bruxelles, capitale dell’Europa e sede delle sue istituzioni, tutte le lingue degli Stati Membri erano di uso corrente, in seno a tutte le istituzioni europee e in tutte le forme d’espressione: dai documenti di lavoro all’interpretazione per le riunioni, dai formulari per qualsiasi procedura amministrativa alle indicazioni ad uso dei visitatori, dal bollettino di informazione dei funzionari alle comunicazioni personali per i cittadini europei che chiedevano informazioni su l’uno o l’altro tema. Le unità, che costituiscono la base dei Servizi del sistema gerarchico-amministrativo della Commissione Europea, erano scrupolosamente multilingui e predisposte in modo tale da poter far fronte, dal punto di vista linguistico, a tutte le eventualità.  Poco a poco, con il progressivo rimpiazzarsi del sistema inglese al sistema preesistente di stampo latino, questo schema trasparente e ordinato è stato sovvertito a un punto tale che oggi quando se ne parla sembra una cosa strana, un’originalità. 

Recentemente, sotto la presidenza di Romano Prodi,  per dichiarate necessità interne di carattere pratico, la Commissione Europea, ha deciso di ridurre a tre le lingue di procedura: tedesco, francese, inglese, senza tuttavia toccare allo statuto di  «lingua ufficiale e lingua di lavoro» delle altre lingue, per il semplice fatto che non rientra nelle sue competenze e che solo il Consiglio di Ministri del‘Unione può farlo deliberando all’unanimità. Ciononostante,  queste tre lingue sono oggi considerate “de facto” le lingue di lavoro della Commissione.  Da notare che la proposta iniziale era stata quella di ridurre le lingue di procedura al solo inglese e che soltanto in seguito alle vive proteste dei Ministri degli Affari Esteri Francese e Tedesco la Commissione Prodi ha ripiegato sulle tre lingue. In questa circostanza, non si capisce perché mai il Governo Italiano non si sia manifestato essendo l’Italia uno dei quattro grandi Stati Membri dell’Unione e Membro Fondatore della Comunità Europea.

Questa limitazione dell'uso delle lingue, all’interno dei servizi, costituisce, in ogni caso, una distorsione, in termini di democrazia e di diritti umani perché ha come conseguenza di mettere in pratica una discriminazione di fatto nei confronti di certi Paesi e di certi cittadini, ponendone d’ufficio altri in posizione privilegiata. Questo fatto è tanto più grave e inaccettabile in  quanto i criteri di scelta delle lingue non sono stati enunciati e non risultano né chiari, né obiettivi, né univoci, né giustificati e tantomeno stabiliti in un’ottica di democrazia e d’interesse generale. 

In questa situazione,  poco esaltante,  restava, tuttavia, salva la nozione di cultura, ed in ogni caso il diritto degli Stati Membri e dei loro cittadini di comunicare con la Commissione e con le altre istituzioni europee nella loro lingua nazionale.  All'interno delle istituzioni, i funzionari meno privilegiati potevano riconoscersi nell’una o nell'altra cultura,  trovarvi i loro punti di riferimento ed adattarsi ad una forma di espressione dove, indipendentemente dalla lingua e dalle parole utilizzate, la «forma mentis» e il contesto culturale nei quali si riconoscevano restavano validi. Una lingua, in effetti, non è unicamente costituita dalle parole con le quali si esprime ma anche dal contesto da cui trae le sue origini, dai valori e dalle forme di pensiero, dal cammino che ha percorso, in sintesi dalla sua storia e dai valori che gliene sono restati.

 Al momento attuale, però, tutto ciò diventa difficile, la cultura anglo-americana ed i suoi cittadini, le loro “lobbies”, le loro strutture si comportano in guisa di etnie superiori e considerano di avere il privilegio, unico, di parlare quella che è di diritto «la» lingua planetaria. C'è, in questo atteggiamento, un equivoco fondamentale perché, in effetti, in seno alle istituzioni europee e in tutto ciò che a queste si riferisce,  non si opera a livello mondiale ma a livello europeo.  A un livello in cui un certo numero di Paesi dell'Europa lavorano insieme allo scopo di integrarsi progressivamente fino a formare un solo corpo, una unica potenza.  In questo contesto, le lingue di livello mondiale non hanno un loro posto, nessun "diritto di cittadinanza” particolare.  Al livello europeo occorre privilegiare le lingue che illustrano la specificità dell’Europa, occorre imporle ai nostri interlocutori ed ai nostri “partenaires” per indurli a giocare nel nostro campo e mettere fine alla costrizione che è imposta ai nostri uomini politici, ai governanti e ai dirigenti dell’Europa  intera di giocare tutti gli incontri “fuori casa”.

La salvaguardia di questa specificità è un qualcosa che è dovuto ai cittadini europei, per evitare il pericolo di porre nella culla dell'Europa riunificata il germe del conflitto e della discordia. Non bisogna mai dimenticare che le popolazioni sono capaci di massacrarsi a vicenda, senza tregua,  per difendere la loro cultura,  una cultura che può trovare espressione nella religione, nella lingua, in una diversa concezione del vivere insieme.  Gli esempi tragici di conflitti insolubili, sotto i nostri occhi,  sono molteplici e multiformi e non hanno bisogno di essere ricordati.

Nonostante ciò, la lingua e la cultura anglo-americana dispongono  di sostenitori e di promotori potenti che non si fanno alcuno scrupolo di disporre dell’uno o dell'altro strumento di lavoro e di comunicazione o addirittura della pubblica istruzione per fare della pulizia etnico-linguistica o per favorire la colonizzazione del proprio Paese.

Gli anglofoni, in genere, conoscono una sola lingua che impongono agli altri, i quali “altri” devono dibattersi, non solo a captare un pensiero che non corrisponde alla loro “forma mentis” ma a tradurre, per di più,  il loro stesso pensiero attraverso una lingua che non ne è lo strumento adeguato. Nella mia qualità di funzionaria europea, mi è capitato spesso che, durante una riunione, l'anglofono di turno dichiarasse non solo di non parlare il francese, lo spagnolo, l’italiano, ecc. ma      di non essere neanche in grado di comprenderlo. In questi casi, non resta nient’ altro da fare che mettersi al regime inglese anche allorché l'anglofono di turno è, eventualmente, il solo esemplare di questa razza privilegiata e che gli altri sono tutti dei latini che potrebbero, molto più vantaggiosamente, per tutti, esprimersi in francese, in italiano, in spagnolo, o magari parlare ognuno la propria lingua comprendendosi reciprocamente. In queste occasioni, generalmente, l’atteggiamento anglofono, ancor di più se si tratta di un anglofono non di lingua madre, è così arrogante e la sensazione di coercizione è tale che rasenta l'intimidazione e nessuno osa dire  che non vuole o che non può parlare in inglese.

Un semplice riflesso di giustizia e di equità suggerisce che è giunto il momento di mettere fine a queste pratiche poco democratiche in seno alle istituzioni europee che si vantano di essere le più democratiche del mondo. Non se ne può più del fatto che certuni debbano sempre subire il ruolo degli “schiavetti negri” che non sono in grado di esprimersi bene, perché sistematicamente costretti ad esprimersi in una lingua che non è la loro, allorché altri pretendono di esprimersi, leggere, scrivere, formarsi ed informarsi sempre e solamente, nella loro propria lingua. È ancora più inaccettabile che i cittadini degli Stati membri, quando si rivolgono alla Commissione e alle altre istituzioni europee, se vogliono essere presi in considerazione, per avere delle notizie, nei settori più tecnici e diversificati, debbano scrivere in inglese e/o accontentarsi di una risposta in inglese.

L’attuale situazione, per quanto occultata e strisciante, non ha niente da invidiare a quella che ha visto nascere l’ideologia nazista. E’ importante e necessario prendere coscienza del fatto che siamo in presenza di una nuova forma di colonizzazione, la colonizzazione linguistica e culturale, attraverso la quale gli anglo-americani pianificano, la scomparsa di tutte le altre culture, delle culture più antiche e fiorenti,   ovvero la culla della civiltà occidentale. Coloro che sono responsabili di questa deriva, per interesse o per negligenza, devono essere coscienti della responsabilità che si assumono e del fatto che l’unilinguismo porta nel suo seno il cancro del “pensiero unico”, vale a dire, del pensiero morto.


Una politica linguistica per l’Europa.

Nell'immediato, un metodo per ovviare, almeno in parte, a questo grave problema e ristabilire un minimo di democrazia, in seno alle istituzioni europee, sarebbe di mettere in atto, a scopo di esemplarità, un certo numero di provvedimenti:

1) rispettare anzitutto le lingue dei Paesi in cui siedono le istituzioni europee e le loro emanazioni, al fine di integrarvisi armoniosamente e non come l'enclave di una élite colonizzatrice,

2) esigere che tutti i nuovi funzionari possano, se non parlare, almeno comprendere le tre lingue attualmente adottate come lingue di procedura, affinché ogni funzionario possa avere, in pratica e concretamente,  la scelta della lingua di lavoro, allo scopo di fornire all’Europa in marcia delle prestazioni di qualità e non delle riflessioni confuse e rattoppate perché obbligato ad esprimersi in una lingua che non conosce perfettamente o che non corrisponde alla sua cultura,

3) migliorare, ingrandire, valorizzare i servizi linguistici ( traduzione e interpretariato), in seno alle istituzioni europee, farne dei centri di eccellenza al servizio del cittadino europeo nella misura in cui, nell’ambito del processo di integrazione nel quale siamo impegnati, costituiscono servizi di interesse pubblico di prima necessità,

4) adottare un codice di buona condotta nell'uso delle lingue ufficiali, in seno alle istituzioni europee, in assenza del quale c'è il rischio di abusi, di illegalità e di sconfinamenti nell'arbitrarietà.

Nessuno, in ogni caso, in seno alle istituzioni e all’interno degli Stati Membri,  dovrebbe mai essere obbligato a formarsi, ad informarsi, ad esprimersi, per iscritto o oralmente, in una lingua che non appartiene alla cultura nella quale si è formato e nella quale si riconosce. In mancanza di ciò e delle regolamentazioni appropriate per renderlo effettivo, il processo di integrazione europea sarebbe portatore di un deficit democratico grave, generatore potenziale di conflitti insolubili.

A breve termine, il sistema linguistico deve essere rivisto,  allargando il numero delle lingue di lavoro, in un'ottica di cultura e di democrazia. È, tra l’altro, sorprendente ed inconcepibile che l'italiano, lingua di un grande Paese fondatore che ha impregnato della sua cultura l'Europa ed il mondo, sia dimenticato e trattato come una lingua “minore”. Per preservare la sua civiltà, i suoi valori, le sue creazioni,  il suo splendore,  l'italiano deve avere il suo posto, nel lavoro quotidiano che si svolge nel cuore dell’Europa, la concepisce e la forgia, argomenti simili o equivalenti possono essere avanzati anche per lo spagnolo.

Il sistema linguistico attuale non è equo né giusto. L’Europa comunitaria ha necessità urgente di una politica linguistica degna di questo nome. In quest’ambito, bisognerà porsi il problema della precisione, della chiarezza e dell’efficacia delle differenti lingue a servire la Pubblica Amministrazione per i diversi bisogni e per tradurre in realtà concetti e valori, nonché del loro ruolo nella strutturazione del pensiero.

Occorrerà, infine,  porsi anche il problema di “formare i giovani europei”: quali lingue,  come e perché  ma, soprattutto, quando.  Va da sé, che questo genere di soluzioni non trovano la strada da sole, richiedono un impegno congiunto di tutte le parti interessate. Un impegno per dare una testimonianza concreta di apertura e di democrazia, l’impegno necessario per passare dall'unilateralità alla reciprocità e per dare corpo ad una vera Comunità di culture e di valori, la sola  possibile e duratura perché  democratica e giusta, quella dell'«unità nella diversità».



Bruxelles, 1° Agosto 2003

Anna Maria Campogrande
** Cet article a été écrit à titre personnel, les opinions qu’y sont exprimées n’engagent que l’auteur elle-même

.

Titre de l’article :     DELLE LINGUE EUROPEE

Anna Maria Campogrande est fonctionnaire de la Commission européenne et membre fondateur de l’Observatoire International de la langue française (OILF) dont elle préside la commission “Relations avec les institutions”. L’OILF, qui siège à Bruxelles, préconise une Europe pluriculturelle et multilingue, respectueuse des réalités historiques et démographiques de la latinité.  
Anna Maria Campogrande souhaite que soit mis un terme au démantèlement des services linguistiques des institutions européennes ainsi qu’à leur externalisation. Elle suggère qu’ils deviennent des centres d’excellence linguistique au service du citoyen et de l’Europe tout entière. Ce nouvel espace, culturel et économique, qui est l’Union Européenne,  ne connaîtra d’épanouissement qu’à la condition de donner corps à une authentique communauté de valeurs, soucieuse des particularités de tous ses membres.


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domenica 26 giugno 2016

Communiqué unitaire de militants de la résistance linguistique au tout-anglais. 24 juin 2016


Après le départ anglais de l’UE, continuer à promouvoir le tout-anglais en Europe serait encore plus absurde, aliénant et indigne.

L’OCCASION POUR ROMPRE AVEC LE TOUT-ANGLAIS EN EUROPE !

« La langue de l’Europe, c’est la traduction ». Umberto Eco. 

Au fil des décennies, l’eurocratie bruxelloise a méthodiquement violé ou contourné les traités qui lui font obligation de respecter l’identité culturelle des Etats affiliés à l’UE. Ainsi s’est imposée la pratique scandaleuse qui consiste à promouvoir l’anglais comme la langue officieuse et quasi-exclusive de l’UE alors qu’une Europe respectueuse de ses Etats constitutifs aurait dû cultiver le plurilinguisme comme un atout économique et comme une richesse culturelle de première importance.  
                       Or, non seulement le Rapport au Parlement sur l’emploi de la langue française (2015) établit que le français (et aussi l’italien, l’allemand…) sont marginalisés au profit de l’anglais à Bruxelles, mais on a pu voir récemment M. Moscovici, fraichement nommé commissaire européen, sommer en anglais ses ex-collègues du gouvernement français de déréguler le marché du travail dans notre pays ! Une sommation analogue s’était déjà traduite en Italie par la mise en place du Jobs Act dont la seule appellation dégage un fumet déplaisant d’aliénation politico-linguistique, sans parler du contenu très discuté de ce type de texte bouleversant les rapports entre employés et employeurs…  
Cette dérive totalitaire vers la langue unique – et vers la pensée et la politique uniques que le tout-anglais porte insidieusement – résulte d’une politique linguistique inavouable. Soustraite au débat démocratique, promue par une oligarchie financière qui fait du Business Globish la « langue de l’entreprise et des affaires »* et qui tient les langues nationales pour autant d’obstacles à l’« économie de marché ouverte sur le monde où la concurrence est libre et non faussée », cette stratégie d’arrachage et de substitution linguistiques vise à fondre nos pays si divers dans le Grand Marché Transatlantique en gestation. Dans le même temps, il s’agit de créer une pseudo-élite supranationale, américano-dépendante et totalement coupée des peuples d’Europe. Non seulement le tout-anglais tend à marginaliser les langues nationales**, ce patrimoine de toute l’humanité, mais l’arrachage linguistique en cours sape les bases du vivre ensemble et de l’échange international équitable alors même que les tenants du tout-anglais se réclament hypocritement de l’ « ouverture », de la « paix » et de la « diversité ».  
 Déjà illégitime en son principe, l’option inavouée en faveur du tout-anglais devient carrément insoutenable dès lors que l’Angleterre a choisi de quitter l’UE. Quels que soient nos jugements respectifs sur l’actuelle « construction européenne » et sur sa légitimité, nous affirmons solennellement que le maintien de l’euro-privilège exorbitant dont dispose le tout-anglais ne pourrait relever que d’un mépris de caste ouvert, insupportable et indéfendable. Ne pouvant compter ni sur les eurocrates, sourds et aveugles à tout ce qui vient des peuples, ni sur nombre de gouvernants des Etats européens acquis à l’aliénation linguistique, nous appelons les citoyens et les mouvements démocratiques de chaque pays à se dresser contre l’aliénation du tout-anglais ; partout, défendons le droit de chaque individu et de chaque peuple à produire, à créer et à échanger prioritairement dans sa ou ses langues nationale(s) ; revendiquons le droit et les moyens pour chaque citoyen de chaque pays d’Europe d’apprendre et de pratiquer plusieurs langues.  
Faisons éclater la légitime colère des peuples et des citoyens libres contre une politique linguistique aliénante que le référendum britannique a désormais privée de toute apparence de légitimité.   

 *Dixit M. E.-A. Seillières le 23 mars 2006, lors de sa prise de fonction à la tête du syndicat patronal européen Businesseurope… (qui peut préciser la date ?).
**… et internationales, car le français, le portugais, l’espagnol sont parlés en Afrique, en Asie, en Amérique…

Signataires : Georges Gastaud , président du COURRIEL (Collectif Unitaire Républicain pour la Résistance, l’Initiative et l’Emancipation Linguistique), Albert Salon , président d’ Avenir de la Langue Française , Daniel Miroux, président de l’ Alliance Champlain , Philippe Loubière (ASSELAF), Régis Ravat , président de l’AFRAV (Association Fraterniphonie Avenir), Guy Chausson et Gérard Janot, Association lotoise des Amis de la Langue française, Marc Favre d’Echallens, président de Droit de comprendre , Philippe Reynaud, président de Défense de la Langue Française (Pays de Savoie) ;

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lunedì 9 maggio 2016

LA LINGUA DEL SÌ

Come le analoghe denominazioni relative agli Arabi, ai Turchi, agli Austriaci, ai Russi e ad altri popoli costruttori d’imperi, così anche Romanus è uno di quegli aggettivi e sostantivi che, dopo aver indicato l’appartenenza ad una comunità nazionale o tribale o ad un luogo particolare, persero quasi del tutto l’originario valore etnico per rivestire un’accezione giuridica e politica. Fu così che tra il IV e il V sec. d. C. l’africano Agostino poté scrivere che nell’Impero romano “omnes Romani facti sunt et omnes Romani dicuntur” (1) e un alto funzionario imperiale d’origine gallica, Claudio Rutilio Namaziano, componeva l’ultimo inno in onore di Roma celebrandone la missione: “Fecisti patriam diversis gentibus unam, (…) urbem fecisti quod prius orbis erat” (2).
Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un’unica patria per le diversae gentes comprese tra l’Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un’unica lingua comune, poiché nella parte orientale, sia prima sia dopo la divisione ufficiale tra Arcadio ed Onorio, non giunse mai a termine il processo di romanizzazione linguistica. “E’ noto che il Latino trovò sempre molta difficoltà a imporsi in quei territori in cui si trovò in concorrenza col Greco, lingua che aveva, presso gli stessi Romani colti, un maggiore prestigio storico e culturale” (3). Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell’esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell’ecumene imperiale non potevano adempiere.
Con la fine dell’Impero d’Occidente, ebbe luogo quella frantumazione della latinità che favorì il processo di formazione delle parlate romanze, sicché sul principio del sec. XIV l’Europa appariva agli occhi di Dante articolata in tre aree linguistiche: quella corrispondente alle parlate germaniche e slave nonché all’ungherese, quella greca e quella neolatina, all’interno della quale egli poteva ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d’oc), francese (lingua d’oil) e italiano (lingua del sì). Ma Dante era ben lungi dall’usare l’argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, solo la restaurazione dell’unità imperiale avrebbe potuto far sì che l’Italia, “il bel paese là dove il sì suona” (4), tornasse ad essere “il giardin dello ‘mperio” (5). E l’impero aveva la sua lingua, il latino, poiché, come diceva lo stesso Dante, “lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile” (6).
Se nella visione di Dante l’identità linguistica e quella nazionale rimanevano all’interno dell’ideale cornice dell’Impero, con la fine del Medio Evo venne in primo piano il nesso di lingua, nazione e Stato nazionale. Tale nesso “si rafforzò poi per il sorgere d’una politica linguistica degli stati, si ravvivò nelle polemiche letterarie e in quelle religiose, acquistò colore e vivacità nelle fantasie popolaresche o semidotte sui caratteri delle lingue e nazioni europee, e assunse, infine, la dignità d’una idea centrale nelle meditazioni di Francesco Bacone e di Locke, di Vico e di Leibnitz sulla storia linguistica e civile dei popoli” (7).
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, quando in alcune parti d’Europa venne proclamato il principio dell’autonomia politica delle nazionalità, la lingua diventò bandiera di lotta politica. “Se chiamiamo popolo gli uomini che subiscono le medesime influenze esterne sui loro organi vocali e che, vivendo insieme, sviluppano continuamente la propria lingua comunicando sempre tra loro; dovremo dire che la lingua di questo popolo deve essere di necessità quella che è e non può essere diversa. (…) Tutto lo sviluppo di un popolo dipende dalla natura della lingua da lui parlata” (8). Così, attraverso queste parole di Fichte, si esprime il nazionalismo romantico agl’inizi dell’Ottocento, mentre si manifesta l’esigenza che ad ogni unità statale corrisponda una parallela unità linguistica. “Ogni sistema linguistico, in quanto condizione di reciproca comprensione e affratellamento, è una spinta verso un disegno politico di indipendenza, di unità” (9). Dove l’aspirazione all’autonomia era ostacolata dalla dispersione della nazione in una serie di entità politiche subnazionali, il richiamo all’unità linguistica diventava fattore di unità; ma se il progetto d’autonomia doveva confrontarsi con una formazione statale sopranazionale, allora l’enfatizzazione dell’identità linguistica veniva a costituire un fattore di ulteriore disgregazione dello spazio politico europeo.
Per quanto riguarda in particolare il Risorgimento italiano, se esso da una parte contribuì alla disgregazione dello spazio politico europeo sottraendo all’impero absburgico i territori italiani direttamente o indirettamente soggetti all’Austria, dall’altra si trattò pur sempre di un processo unitario, perché il potere dei Savoia si estese su tutta una Penisola che era precedentemente frazionata in sette entità politiche. Fu così che nel Regno d’Italia la scuola, la burocrazia e l’esercito modificarono le condizioni linguistiche e contribuirono alla diffusione della lingua comune; all’azione degli organi del nuovo Stato unitario si aggiunse quella svolta dalla stampa (quotidiana, periodica e non periodica) e dagli spettacoli, poi dal cinema sonoro e dalla radio.
Con la Grande Guerra, che favorì la temporanea convivenza di soldati originari di ogni parte del territorio nazionale, il lessico italiano si arricchì di unità lessicali provenienti da vari dialetti. Ma le sorti della lingua italiana furono decise dagli esiti della successiva guerra mondiale: l’invasione e l’occupazione dell’Italia e il suo inserimento nell’area geopolitica egemonizzata dalle Potenze atlantiche segnarono l’inizio di un processo linguistico che ha condotto alla nascita dell’attuale itanglese. Giacomo Devoto ha registrato l’avvio di tale processo usando la terminologia anodina e fredda del glottologo: “Una impronta interessante anglo-americana lasciarono, irradiando da Napoli, i ragazzi detti sciuscià (dall’inglese “shoeshine”), in quanto si offrivano come “lustratori di scarpe”. Anche segnorina, riferita al significato restrittivo di “passeggiatrice”, è sì l’italiano “signorina”, ma la pronuncia E della vocale protonica vi è rimasta come traccia della pronuncia normale sulla bocca dei militari anglo-americani a Napoli, e cioè del filone che le ha assicurato la fortuna” (10).

1. Sant’Agostino, Ad Psalmos, LVIII, 1.
2. Rutilio Namaziano, De reditu, I, 63-66.
3. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 174.
4. Dante, Inf. XXXIII, 80.
5. Dante, Purg. VI, 105.
6. Dante, Convivio, I, 5.
7. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1965, p. 10.
8. J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Edizioni di Ar, Padova 2009, pp. 58 e 69.
9. G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, Rizzoli, Milano 1974, p. 295.
10. G. Devoto, op. cit., pp. 327-328.
11. A. Graf, L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Loescher, Torino 1911, p. 426.
12. A. Benedetti, Le traduzioni italiane da Walter Scott e i loro anglicismi, Olschki, Firenze 1974; A. L. Messeri, Voci inglesi della moda accolte in italiano nel XIX secolo, “Lingua nostra”, XV, 1954, pp. 47-50; A. L. Messeri, Anglicismi ottocenteschi riferiti ai mezzi di comunicazione, “Lingua nostra”, XVI, 1955, pp. 5-10; A. L. Messeri, Anglicismi nel linguaggio politico italiano nel ’700 e nell”800, “Lingua nostra”, XVIII, 1957, pp. 100-108.
via claudiomutti.com
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LA LINGUA DEI SERVI E QUELLA DEI PADRONI

Stimolato dai modelli di consumo e vanità, che rappresentano la negazione di ogni stereotipo culturale proprio, il popolo e le istituzioni (questi meno, quelle più consapevolmente), si struggono per apparire, nei modi e negli oggetti i più simili allo straniero anglo-americano. La maledizione nascosta recita: avrà più fascino e considerazione chi più simile apparirà allo straniero e ai suoi atteggiamenti mentali. Che belle scimmie, qualcuno avrebbe a dire. Troppo spesso ci si accosta alla cultura straniera, non con curiosità e consapevolezza propria, ma per danaro e scimmiotteria. Il mondo degli adolescenti è l’esempio massimo di tale meccanismo, che attesta che la lingua italiana è meno importante dell’inglese, anche ai fini della costruzione dei valori e dello stile di vita, oltre che per trovare un soddisfacente lavoro. Fregiarsi di termini inglesi, nel normale colloquiare in italiano, è uno schiaffo ammaestratore per la stragrande maggioranza degli interlocutori e motivo di vanità. Ecco che termini stupidi divengono importanti, anche se non ne capiamo il significato, o magari sapendo, che il corrispettivo italiano è banale e non alla moda, ci troviamo faticosamente ad imparare un altro termine, totalmente diverso dalla nostra realtà linguistica, pur di sentirci bene. L’enorme distanza tra inglese e le lingue mediterranee si riscontra ovunque. L’inglese è la lingua delle eccezioni, il latino delle declinazioni e dell’individuazione delle regole generali. Questa quasi asimmetrica predisposizione all’ ”estraneità reciproca” rende ancora più doloroso l’innesto della lingua inglese sul tronco latino, il che, per chi conserva un po’ di cultura classica, rappresenta senza dubbio un’ingerenza linguistica aberrante. Nei rapporti tra le due lingue vediamo una netta opposizione: l’inglese lingua pragmatica e sintetica, fortemente legata al parlato circostanziale, l’italiano lingua prolissa, esegetica, dal lungo periodo colorato. Le menti povere di classicismo e pensiero astratto sembrerebbero essere più predisposte di altre all'apprendimento dell’inglese, forse è anche questo quello che vuole il mercato. Prendiamo, adesso, in considerazione i migliori cervelli del Paese, quelli che vogliono scalare la società, e come oggi debbano conoscere perfettamente l’inglese e passare parte della vita all'estero, per toccare con mano il fenomeno. Il meccanismo è sottile, perché silenziosamente pervade tutta la realtà sociale, sottrae e seleziona le menti migliori. Tali individui, spinti ad emergere nella società con meccanismi premianti, dopo il sacrificio individuale perpetrato per apprendere la lingua, divengono i peggiori difensori dei propri sforzi e privilegi, e denigratori del popolo e della nazione. Questo è un aspetto fondamentale, che spiega come il colonizzatore fa sue le migliori forze del popolo, senza disperdere troppo risorse, se non per alimentare la propaganda attraverso le ben remunerate istituzioni che fanno leva sulle ambizioni di miglioramento sociale dell’individuo, al fine di trapiantare nel popolo la necessità dell’apprendimento stesso della lingua colonizzatrice. I professori madrelingua dislocati omogeneamente nel nostro territorio forniscono, inoltre, un ottimo esempio d’intelligenza potenziale e lucrativa posta a presidio dei servizi stranieri, oltre che dei loro propri. Pensate a quanti soldi gravitano intorno all'apprendimento dell’inglese. Ciò che sconforta è l’inesistenza di centro di socializzazione capaci di contrastare apertamente tali fenomeni, che godano di considerazione sociale e che promettano all'individuo soddisfazione sociale alternativa, senza incorrere nella persecuzione liberal-democratica sempre a caccia delle più sane, autentiche e tradizionali idee della nostra gente. L’attuale classe dirigente è la più corrotta e antipopolare, pedagogo moltiplicatore del vizio plutocratico, che ha portato la nazione nel precipizio morale, intellettuale, linguistico, sociale ed economico. Ogni lingua è una preziosa risorsa ed una specifica visione del mondo tradizionale frutto dell’adattamento ad un certo ambiente, clima, territorio e veicolo atto a replicare modi d’essere, idee e atteggiamenti. Così, chi non vuole sentirsi servo della colonizzazione contemporanea è costretto a ribellarsi allo strapotere della lingua inglese, salvaguardando e praticando la propria, perché, a dimostrazione di quanto dello, in ogni epoca storica e dimensione geografica, i servi imparano sempre la lingua dei padroni.

(Autore sconosciuto, se qualcuno riconosce il testo ci contatti)
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LA DIFFUSIONE DELLA LINGUA INGLESE E LA COLONIZZAZIONE CULTURALE DELL’ EUROPA

In principio era il latino, lingua dell’Impero Romano e poi, nel Medio Evo, lingua dotta e – nella sua versione “volgare” – lingua franca di tutti i popoli europei e africani ed asiatici che dell’Impero Romano avevano fatto parte. In seguito, parallelamente al consolidarsi di diverse lingue “volgari” (cioè parlate dal volgo, dal popolo), il latino andava perdendo gradualmente il ruolo di lingua universale. Le lingue “parlate” diventavano – più o meno rapidamente – anche le lingue “scritte” dei popoli e, attraverso gli strumenti letterari (come da noi la “Divina Commedia”), si affermavano come lingue “nazionali”. Rimaneva, comunque, l’esigenza di una lingua universale, di una lingua – cioè – che potesse essere usata nei rapporti diplomatici da tutte le nazioni e che fosse veicolo di cultura e strumento di comunicazione nei traffici internazionali. Questa lingua avrebbe potuto essere la italiana, erede diretta della latina.

Ma il nostro ritardo nel raggiungimento dell’unità nazionale (ottenuta solo a metà ’800) e poi la ridottissima espansione coloniale ci ponevano all’ultimo posto nella graduatoria delle nazioni neolatine: dopo la Francia, dopo la Spagna, dopo – addirittura – il piccolo Portogallo che poteva vantare un immenso impero coloniale, esteso dal Brasile all’Africa Australe.

La nuova lingua franca dei rapporti internazionali diventava dunque la francese: per secoli saranno redatti in francese sia i trattati diplomatici che gli accordi commerciali internazionali; e, per secoli, chiunque aspirasse a far parte della classe dirigente (politica, culturale, imprenditoriale) di qualunque nazione appartenente al “consorzio dei paesi civili” doveva necessariamente conoscere “il gallico idioma”. A noi italiani la cosa andava abbastanza bene: il francese era una lingua affine alla nostra, con una grammatica simile, con tanti vocaboli che avevano una comune radice di derivazione latina, ed era – per gli studenti italiani – di facile apprendimento; contrariamente all’inglese ed alle altre lingue del ceppo germanico, con le loro grammatiche aliene, con i loro vocabolari incomprensibili, con i loro suoni aspirati e gutturali.

La primazia della lingua francese, però, era nient’affatto gradita dall’altra superpotenza europea, la Gran Bretagna. Non soltanto quell’idioma appariva ostico agli inglesi (per motivi speculari a quelli che lo rendevano familiare a italiani, spagnoli e portoghesi), ma tutto intero il “sistema” britannico soffriva per il primato linguistico di Parigi: per ragioni di prestigio, certamente; ma anche per ragioni pratiche, per esigenze commerciali, per aspirazioni culturali che avrebbero avuto evidenti ricadute in àmbito politico.
II momento della riscossa per Londra giungeva con la prima guerra mondiale e con l’ ufficializzazione dell’alleanza di ferro con un lontano paese di lingua inglese: gli Stati Uniti d’America. Prendeva forma un blocco intercontinentale di lingua e di cultura anglosassone, formato dall’Impero Britannico con tutte le sue colonie e con i suoi grandi Dominionssemi autonomi (Canada, Australia, Sud Africa, eccetera) e, appunto, dagli Stati Uniti. Era quella che il generale Smuts – Ministro della Guerra sudafricano – chiamava “la federazione britannica delle nazioni” e che considerava estranea al consorzio europeo: «Tenete presenze che, dopo lutto. l’Europa non è casi grande e non continuerà ad apparir tale in avvenire… - affermava Smuts - Non è l’Europa soltanto che dobbiamo prendere in considerazione, ma anche l’avvenire di quella grande confederazione di Stati alla quale noi tutti apparteniamo.»
Ma era con la Conferenza della Pace (aperta a Parigi il 18 gennaio 1919) che il blocco anglofono portavawilson l’attacco decisivo alla lingua francese. Il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson – non la conosceva. Probabilmente, in qualsiasi paese europeo uno come lui non sarebbe mai diventato Capo di Stato o di Governo; e, se ciò fosse accaduto, si sarebbe precipitato a prendere lezioni di francese. Nel paese dei cowboy, invece, l’arroganza imperava e il signor Wilson non si preoccupava di presentarsi ad un alto consesso internazionale senza conoscere la lingua parlata dai rappresentanti di tutte le altre nazioni (Gran Bretagna compresa). O, forse, era lutto calcolato.

wilsonIn ogni caso, accampando la non conoscenza del francese da parte di Wilson (e non curandosi
della non conoscenza dell’inglese da parte del Primo Ministro italiano), gli anglosassoni imponevano l’inglese come lingua della Conferenza. E questo` malgrado la Conferenza si svolgesse a Parigi e malgrado il francese fosse – come abbiamo visto – la lingua ufficiale della diplomazia mondiale. Cosi, mentre affermavano l’inglese come nuova lingua delle relazioni internazionali. gli anglo-americani iniziavano la colonizzazione culturale dell’Europa. La Francia non sembrava accorgersi di questa vergognosa manovra di spoliazione. Il Primo Ministro francese Clemenceau preferiva ostacolare le legittime aspirazioni italiane (per Fiume, per il Montenegro, per una posizione di prestigio nell’Europa Orientale), non rendendosi conto che – cosi facendo – candidava Parigi al ruolo di cameriera dell’Inghilterra (come dirà Mussolini).

I frutti di quel nefasto gennaio |919 sono sotto gli occhi di tutti: la lingua inglese non ha soltanto soppiantato la francese come strumento di comunicazione diplomatica, scientifica e commerciale, ma è anche diventata veicolo di penetrazione culturale per gli Stati Uniti verso tutti i paesi del mondo e. segnatamente, verse i paesi europei.

Naturalmente. la penetrazione culturale è automaticamente uno strumento formidabile di penetrazione (e talora di colonizzazione) politica. La lingua è infatti veicolo di cultura scientifica, ma anche – e forse soprattutto – di cultura spicciola, popolare. La diffusione della lingua significa cinema, musica, letteratura; significa proporre l’immagine di un modello culturale e politico da far acquisire come “positivo” dalle popolazioni che si vogliono egemonizzare. Ecco, così, che accanto alla musica rock e alla festa di Halloween, i popoli europei hanno acquisito anche la mentalità dell` «arrivano i nostri»,  la convinzione che gli americani siano sempre i «buoni» della situazione, i «liberatori» impegnati ad esportare la democrazia – come ieri in Europa -  in Vietnam, in Nicaragua, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria e così via.
Al di là comunque. Degli aspetti politici (che potranno successivamente essere oggetto di altra disamina), gli effetti pratici di una tale colonizzazione culturale sono evidenti. Si va dai nomi propri rielaborati in chiave anglica (Tonio diventa Tony, Maria diventa Mary, eccetera) ai titoli dei film che oramai ci vengono proposti direttamente in inglese: Pretty Woman (Bella Donna), Ghost (Fantasma), Star Trek, (Viaggio Stellare), Predator(Predatore) e via discorrendo.

E la pubblicità televisiva? Una volta si accontentavano di sovrapporre qua e là una frase in inglese, o di americanizzare le sigle: by Giorgio Armani per esempio. Adesso sono arrivati al punto di proporci George Clooney in uno spot tutto in inglese con sottotitoli in italiano. Avete capito? A noi, a casa nostra, sono riservati i sottotitoli: come se fossimo una tribù indiana in via di estinzione. Forse è questo il futuro che vogliono riservare alia nostra lingua? Da erede del latino, da lingua di Dante e di Petrarca a dialetto da riserva indiana? Perché non reagiamo? Perché non iniziamo. per esempio, a non comprare i prodotti che sono pubblicizzati in inglese?

di Michele Rallo
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GLI IMPERI DEL FUTURO



"Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente".

Winston Churchill, Harvard University, 6 settembre 1943
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LA RIVOLTA DEI PROFESSORI DI LATINO E GRECO: SIAMO NOI A SCENDERE IN PIAZZA

Siamo alla follia. Il greco e il latino in soli quattro anni? La reazione degli insegnanti di queste discipline è furibonda rispetto alla posizione possibilista espressa dal neo titolare del Miur sulla riduzione dei licei a quattro anni. La sciagurata ipotesi lanciata dal precedente ministro Carrozza non viene infatti abbandonata da Stefania Giannini che ha rilanciato con un «parliamone», che è più che un “apertura” ai licei brevi. L’idea di un sapere contratto su quattro anni ripugna un po’ a tutti gli insegnanti, ma i primi a scendere in piazza tra due giorni sono gli insegnanti di latino, che  mercoledì 5 marzo daranno una dimostrazione di  “benvenuto” al neo-Ministro dell’istruzione. Dietro le chiacchiere per dimostrare la bontà del liceo short – la qualità prima della quantità, il sapere sintetico più “utile” di quello analitico ecc – si nascondono banali motivi di cassa, “tagli” sui professori e quant’altro: chi vive il mondo della scuola lo sa. Si tratta di un’ ulteriore tappa verso lo smantellamento della scuola pubblica a suon di riduzioni e mai di ripensamenti complessivi di tutti i corsi di studio.
Tornando al greco e al latino, solo chi lo ha studiato, chi lo insegna e chi lo approfondisce nelle università sa che anche cinque anni sono pochi, o comunque costituiscono il minimo indispensabile per conoscerne le strutture linguistiche e contenutistiche: si tratta dei “mattoncini” fondamentali della cultura umanistica e chi decide di affrontarla frequentando un liceo non può farcela seriamente in quattro anni, è una questione di serietà per chi lo insegna e per chi lo apprende. «In questo modo – afferma il Coordinamento dei docenti – le scuole superiori si indeboliranno ulteriormente e le nostre discipline perderanno definitivamente la possibilità di essere insegnate in maniera efficace. Questo atteggiamento porterà al progressivo oblio della cultura umanistica nel nostro Paese, quella cultura che ha sempre rappresentato un modello di riferimento dell’Italia agli occhi del mondo». La riduzione a quattro anni comporterà, necessariamente, una mutazione filosofica, la sintesi prevarrà sulla qualità, l’informazione sull’analisi. Praticamente il contrario dei valori di cui queste lingue sono portatrici. Il corpo insegnante è preparato ad affrontare una rivoluzione nel loro insegnamento in breve tempo? In una realtà economica e sociale, come quella in cui viviamo, è conveniente per i nostri giovani una preparazione più veloce e meno profonda? Il dibattito è aperto e si stanno confrontando due scuole di pensiero opposte. Tutto avrebbe un senso se la rimodulazione dei corsi di studi avvenisse in una cornice complessiva che veda elementari e medie accorpate in un ciclo di sette anni, ipotesi già sul tappeto da anni ma sul quale nessun ministro ha operato. Quando si invocano acriticamente gli altri Paesi che hanno già il liceo della durata di 4 anni, gli autorevoli ministri omettono di dire che in altre nazioni tutti i cicli di studi hanno una scansione temporale che giustifica la minor durata delle superiori. Va da sé che in Italia in mancanza di un piano logico complessivo, la riduzione dei licei a quattro anni è ipotesi irricevibile, “appesa” a una logica economicista che non porta didatticamente da nessuna parte. Se non verso la banalizzazione dei saperi.
lunedì, 3 marzo 2014, Secolo d'Italia
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